venerdì 29 ottobre 2010

Lo spazio di Silvia 4 (29 ottobre 2010)

E’ facile barattare tre minuti delle mie sere con un briciolo di comprensione, mi basta ricordare di caricare il mio iPod. E’ un compromesso con me stessa, un buon compromesso efficace nel sentirmi meno peggio. Premere “ ricerca” e poi il tasto play è dannatamente più facile e veloce, e sono sincera con me stessa: qualcuno canta emozioni e io mi emoziono di ricordi e rimpianti.
La verità è che la voce mi frega, è un coltello con cui metà di me ha deciso di punire l’altra metà. Senza nessun criterio, né coraggio, senza beneficio del dubbio sulla qualità delle mie idee, né croste di comprensione.
Per comunicare scrivo, scrivo di me e della mia insoddisfazione, chi se ne frega se uso una penna nera, blu, o gialla, il significato sta nella sostanza, nelle righe che scorrono e che spesso sembrano già nell’inchiostro di una penna. Nessuno mi controbatte, e scivolo giù fino al punto, sicura ma non troppo leggera. Le mani sudano ma c’è un che di gagliardo in me.
Chi vince in amore, chi si arrabbia con la vita, chi critica o chi approva, chi vive dentro un ricordo e chi vive punto, chi parla di sé o del pezzetto che di sé ha un altro, chi è felice o chi è stufo, la musica mi parla e mi capisce, mi dà la possibilità di scegliere la stessa emozione trenta volte, al volume che voglio, e senza aver mai sbagliato.
Qualche ricordo fa scrissi una lettera vera, pesante e forse innamorata, scrissi di qualcosa che probabilmente non mi avevano mai presentato, né avevo mai conosciuto, sembrava il testo di una canzone, volle che a leggerla fossi io, a ogni capoverso moriva un pezzetto di me. Ma aveva capito: aveva centrato il punto e stava strangolando quel nervo. E poi Freddy mi urlava nelle orecchie “ Show must go on”.
Mia madre mi regalò un CD, la mattina di uno dei giorni più massacranti di sempre. Mi sentivo in quel fosso di cui parlava De André, e  quella mattina in un gesto aveva detto tutto e per due anni di chilometri lontano mi parlava tutte le sere.
Ho urlato dal giorno in cui mi sono conosciuta, ho faticato a controbattere e facile era legare la rabbia, e dominare i silenzi incompresi e giustificati solo da una flebo.
Sono il boss dell’autocritica e sparo a zero su me stessa a perdigiorno, questione di autostima mi ripetono e mi dico.
La voce chiede ascolto e chiede di essere capita, ma è l’ennesima domanda sul filo di una risposta in stand-by.
E scrivo del solito urlo di equilibrio.

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